
Ora che piano piano tutto riparte l’importante è non dimenticare. Non dimenticare. No, non mi riferisco al virus e ai morti, che certo non dobbiamo dimenticare e ai quali andrebbe data una forma di giustizia, visto il modo in cui se ne sono andati. Mi riferisco ai pensieri, alle emozioni. Dovremmo fare in modo di non dimenticare quello che abbiamo provato, dovremmo continuare a tornare e ritornare alle emozioni che in quei giorni ci hanno abitato, perché questa è l’unica strada attraverso cui poter offrire una opportunità trasformativa di questo strano periodo di pandemia. Ho raccolto molte testimonianze, e posso dire che il confinamento ha prodotto un quantitativo di esperienze emotive, interne e sociali, molto consistente e molto in profondità, come ho cercato di raccontare in qualche mio precedente articolo, si sono create delle sorti di “visioni” verso la propria realtà interna (scoprire il rapporto coi propri figli, il piacere dell’intimità, il sentire estraneo chi ci sta intorno ecc..) e verso il pianeta (l’importanza del silenzio, della calma, del tempo vuoto, dell’inquinamento). Non tutto è stato negativo. Se ci è piaciuto il silenzio e l’aria tersa, impegnamoci realmente ad andare più a piedi o in bicicletta. Se ci siamo accorti che di molte cose ne abbiamo fatto a meno, continuiamo a vivere in economia.
Una delle esperienze che più mi ha toccata è quella della dirigente scolastica di un paese del Sud, di quelli con alto tasso di abbandono scolastico e criminalità giovanile, che ogni giorno si è recata a scuola, è stata nella sua stanza, ha lasciato la luce accesa. Ha cercato di comunicare ai ragazzi fuori “io ci sono, la scuola è qui, se avete bisogno ci sono”. A volte basta una luce e una presenza, per non interrompere il filo, non servono compiti e schede.
E allora ecco che io credo che una grande mancanza sia stata quella di poter pensare alla scuola come ha un “presidio di salute”, un luogo reale di “sussistenza emotiva e psichica”.
Daniela Lucangeli, neuroscienziata, impegnata da anni nello studio dell’apprendimento, in uno dei suoi incontri on line di questo periodo ha riportato uno studio che sta conducendo sulla percezione degli studenti rispetto alla scuola. Riporto a grandi linee uno dei punti emersi. Nello studio, iniziato prima dell’inizio della Pandemia veniva chiesto agli studenti cosa fosse la scuola, e la risposta più frequente è stata “dove si impara”, veniva cioè identificata la scuola come luogo dove si apprende. Nel periodo del confinamento il gruppo di studio ha pensato di riproporre la stessa domanda agli studenti e la risposta è stata: “l’insegnante e i compagni”. Vediamo come dopo lunga deprivazione della libertà di incontrare gli altri, i compagni, le/gli insegnanti, la percezione di cosa sia “scuola” sia passata da un“luogo” a “persone”.
Questo ci mette a contatto con alcune delle possibili risorse dello straordinario periodo che abbiamo passato, che non necessariamente deve essere visto come un periodo difficile da superare rapidamente, bensì come un’esperienza nuova che attraverso la mancanza ci ha permesso di sentire l’essenza di alcune cose. Per i nostri figli la deprivazione del contatto coi propri compagni ha potuto significare non solo e non necessariamente uno shock, ma anche la possibilità di scoprire il valore che ha l’universo relazionale, l’incontro con l’altro, che normalmente incontravano distrattamente la mattina recandosi a scuola un po’ assonnati.
Dobbiamo partire dal fare tesoro di questa esperienza, dal coltivare questi preziosi semi emersi e pensare che forse non saremo noi ma loro, i bambini e i ragazzi, che con ciò che hanno vissuto, se li aiutiamo a elaborare questa esperienza, a dare un senso, potranno cambiare il futuro. Noi forse, gli adulti di oggi, non faremo in tempo e non avremo neanche il cuore e gli occhi giusti per guardare, ma loro sì.
La didattica a distanza, in questi mesi, è in alcuni casi (non in tutti per fortuna) andata pian piano verso un esaurimento di insegnanti, genitori ed alunni, perché ha tentato di riportare on line ciò che si fa di persona. Non ha cercato di comprendere un modo nuovo e diverso di fare, non è stata occasione di trasformazione, ma la didattica a distanza (o meglio vorrei dire on line) può avere delle risorse. Ho ascoltato la testimonianza di diversi studenti intervistati e da alcuni di loro del liceo sono emersi alcune riflessioni interessanti. Ad esempio hanno detto che la didattica a distanza ha tolto quel senso di oppressione di essere sempre visti e giudicati, di dover seguire per ore qualcuno che parla, ma bensì ha permesso di focalizzare l’attenzione su lezioni ridotte e di aver più tempo libero per poter portare avanti la propria organizzazione personale. Vediamo come la scuola avesse delle grandi pecche che oggi possono cambiare. Alcuni hanno detto che si potrebbe continuare a usare la didattica a distanza per certe specifiche lezioni e spiegazioni e lasciare lo spazio a scuola in presenza per laboratori, per confrontarsi coi compagni, per produrre insieme in cooperazione. Questo ridurrebbe anche la frequentazione per molte ore tutti chiusi in una stanza, che a mio avviso è poco salutare indipendentemente dal Coronavirus. Una scuola più elastica, più dinamica, un luogo aperto. La discussione didattica a distanza sì/didattica a distanza no è sterile, è vecchia, non porta a niente, soprattutto per dei nativi digitali come i nostri ragazzi.
Quello a cui siamo chiamati ora, non è una semplice ripartenza, un tentativo di tornare il più rapidamente al precedente assetto, ma deve essere qualcosa che ha a che fare col portarsi dietro, in modo consapevole, le aperture del cuore e della mente che questo periodo, almeno in alcuni, ha prodotto.
Sono anch’io madre, e sono una madre che lavora, è chiaro che questo periodo ha messo a dura prova la nostra capacità di reggere le molteplici richieste emerse dal venire meno dei servizi che la nostra società offre, come la scuola e lo sport ad esempio. Stiamo toccando con mano quanto il tessuto sociale che normalmente ci sostiene sia fondamentale per poter organizzare tutta la nostra quotidianità, e parlo da donna che ha scelto da sempre di ridurre la propria attività lavorativa per poter essere presente coi figli, e non delegare la loro quotidianità ad altri. So bene però che la realtà più diffusa è un’altra e più difficile, e va sostenuta.
Credo che in questo momento chi si occupa di scuola e di riapertura debba farlo pensando attentamente ad alcuni aspetti:
- La scuola è un luogo di salute, fa parte degli affetti fondamentali di chi la frequenta (anche di chi non la ama), e non può essere sottratta per motivi di sicurezza (o almeno non più a lungo di un periodo straordinario di emergenza), come non sono stati sottratti la famiglia, i supermercati e gli ospedali.
- La scuola non è solo dove si fa lezione, per cui se in questo momento non si possono garantire le lezioni, dovrebbe essere mantenuta l’apertura della scuola, come luogo dove anche uno per volta si possa incontrare un insegnante, dove si possa organizzare attività in piccoli gruppi anche di altro tipo da quella strettamente didattica, come laboratori, incontri ecc…la scuola deve diventare luogo di ascolto permanente.
- La scuola ha bisogno di mantenere la collaborazione e il legame con i genitori come è stato fatto in questo periodo per costruire e partecipare insieme alla crescita dei ragazzi. Non può più essere luogo di delega e basta o di risposta alle esigenze lavorative dei genitori.
- La scuola deve diventare diffusa, deve espandersi sul territorio, deve essere tessuto, trama. È scuola la piazza, la biblioteca della città, i musei, gli spazi verdi, il cinema. Collaborazione con enti sul territorio, luogo di scambio e di contaminazione di idee (non solo di virus!)
È evidente che gli adulti stanno pian piano riprendendo la propria vita e stanno allargando le possibilità di incontro. Pur mantenendo la sicurezza nei luoghi chiusi o evitando gli assembramenti, è chiaro che molti di noi stanno riprendendo contatto con gli amici, organizzano cene in poche persone al ristorante o a casa, perché non pensiamo che questo sia un diritto anche dei bambini?
È paura del contagio? Dobbiamo fare i conti con questa paura, dobbiamo tollerare l’insicurezza, nella fiducia che gli organi preposti controlleranno l’andamento epidemiologico, valutando la soglia tollerabile di contagiati e morti.
Il punto però che vorrei mettere a fuoco è che da psicologa credo che ci siano questioni complesse che riguardano il senso di sicurezza e la vicinanza dell’altro. Quello che più mi colpisce nelle Istituzioni che si stanno occupando di riaprire i servizi è l’assenza totale di riflessione e consulenza da parte di Psicologi su come affrontare coi bambini più piccoli, ma con tutti direi, la questione del contatto fisico, della paura prodotta in questi mesi, delle implicazioni psichiche, fisiche ed emotive dell’allontanamento dell’altro. Servono riflessioni profonde, elaborazioni che accompagnino gli adulti che si occuperanno dei bambini. Io mi auguro che il diritto al contatto venga mantenuto, magari a piccoli gruppi, magari con un’attenta analisi di possibili sintomi tra educatori e familiari, ma che venga mantenuto.
Una possibilità di elaborare anche psichicamente ed emotivamente il rischio per farlo divenire rischio pensato, l’insicurezza insicurezza consapevole, può essere quella di ripristinare il senso di responsabilità personale.
Questa è una grande questione che riguarda la società ben prima della pandemia, ovvero il pensiero garantista: qualcuno deve garantirmi che non mi accadrà niente, garantirmi la sicurezza, la riuscita. Una dinamica di delega continua a qualcosa di esterno su qualcosa che concerne il Sé: delega della salute, che ha prodotto denunce e un clima di terrore nel rapporto medico-paziente, delega della sicurezza, chi è al potere deve sempre e comunque difendermi dall’altro visto come “pericolo”.
Sappiamo bene tutti come fosse diventato un circolo vizioso, che chiudeva la libertà e le possibilità di espressione personale e collettiva. Le scuole non potevano essere frequentate il pomeriggio spesso perché già “sanificate” per il giorno dopo, senza pensare che la cura del posto può essere qualcosa che viene svolto anche da chi la usa, divenendo tra l’altro attività educante. Senso di fiducia e poca burocrazia: tu giovane usi i locali pubblici? Dopo, quando hai finito, li pulisci un po’, ti prendi cura.
Coltiviamo, all’interno di uno stato di diritto, il senso della responsabilità personale andato perduto. Io, cittadino e individuo, mi assumo la responsabilità insieme a te di quello che stiamo facendo insieme, dentro le regole, ma con la responsabilità di ciascuno. Non possiamo aprire le scuole, pensando che ci debbano garantire i servizi di prima ma mantenendo anche una sicurezza totale del rischio. Ciò vorrebbe dire avere figli dentro delle scatolette sterili, per ammalarsi fra qualche anno in modo ben più grave dell’attuale Covid-19. Dobbiamo aprire le scuole assumendoci la responsabilità personale e collettiva di quello che faremo, al pari di ciò che oggi stiamo facendo coi ristoranti e gli aperitivi.
La responsabilità personale però ha a che fare con un processo di maturità e consapevolezza emotiva profondo, che non si ottiene solo con metodi e organizzazione, ma con l’ascolto psichico delle paure, delle angosce e delle rabbie che questo periodo inevitabilmente ha mosso. Dobbiamo ripartire da cambiare il significato di “responsabilità” che non è solo seguire le norme, bensì “abilità a rispondere”, rispondere a bisogni che cambiano e si trasformano. Prendiamoci seriamente cura delle emozioni nostre e dei nostri figli.