
Nel 2001, ai tempi dei fatti di Genova, avevo 22 anni e un figlio di appena tre mesi. Ero, e in parte lo sono ancora, impegnata in quel fermento sociale e culturale che grossolanamente può essere definito “no-global”, in realtà, per molti come per me non c’era nessun NO alla globalizzazione, c’era bensì il desiderio di accogliere un cambiamento inevitabile, iniziato con la diffusione globale del “web world” e la possibilità di mettere in connessione mondi lontani e far circolare informazioni, che spesso significa anche maggior libertà, ma stando ben attenti a intercettarne le criticità. C’era piuttosto la consapevolezza che un mondo fondato sul capitale, sul “più produci, più consumi, più ricchezza c’è” era qualcosa destinato a fallire. Nasceva una nuova consapevolezza ecologica, credo questa fosse la tematica trasversale al movimento, interpretata da alcune parti in forme poco costruttive, aggressive e degeneranti, ma da molti sentita invece come volontà di costruire un futuro a dimensione umana, ora che un certo benessere e una certa quota di diritti e di conoscenze acquisiti iniziavano a rendere possibile una certa visione. Un anno dopo, nel 2002, sarebbe nato il Social Forum Europeo, la prima edizione nella bellissima Firenze, partecipai a molte conferenze e workshop, e da lì nacque la rete dei gruppi d’acquisto sul territorio nazionale, detti il mio nominativo e il mio numero di telefono per quanto riguardava Empoli, mi ritrovai nei mesi successivi a rispondere a tantissime telefonate di concittadini convinti che esistesse un gruppo di acquisto, e io che rispondevo “io ero solo presente al workshop”. In realtà decisi di richiamare le persone che mi avevano contattata e dissi loro “non c’è nessun gruppo d’acquisto ma si potrebbe organizzare”. Così iniziò il primo gruppo d’acquisto ad Empoli.
Torniamo però a Genova, perché ciò di cui vorrei parlare è il filo sottile che sento unire quei fatti e quel moviment, a ciò a cui assistiamo oggi, una Pandemia che ha fermato, ha impaurito e sconvolto quasi un mondo intero. Credo che ora che siamo nel post lockdown ci sia da pensare e ripensare tante di quelle cose, di quegli eventi, di quelle connessioni per ricondurci a dare un senso che ci aiuti a costruire qualcosa dalle macerie.
Noi figli nati nell’epoca del desiderio, dove desiderare qualcosa spesso voleva dire poter accedere a quel qualcosa, superate le restrizioni dell’ultimo conflitto mondiale che avevano ammorbato i nostri nonni, e cresciuti nell’epoca delle vacanze estive di oltre un mese, che spesso si potevano concedere tutti dagli operai agli industriali, abbiamo avuto forse l’agio per potersi permettere di vedere non solo il proprio mondo ma quello accanto. Abbiamo annusato che se continui a produrre senza sosta, distruggi la dimensione umana e anche l’ambiente, che le scarpe Nike ultimo modello che si possono acquistare tutti, sono prodotte da bambini senza diritti e senza cibo. Abbiamo iniziato però anche a pensare che la soluzione non era solo la lotta alle multinazionali (anche perché le lotte spesso non portano gli effetti desiderati , ma anche tanti danni collaterali) ma la costruzione di un’economia locale e più ecologica, di un’agricoltura che tenga conto dei cicli naturali, e quindi di un’alimentazione che non sia fatta di pomodori a gennaio, sempre però in una visione multiculturale e di aperura a una dimensione globale. Erano i nostri contadini che rischiavano di sparire per sempre, non era più un problema di guardare lo sfruttamento a migliaia di km da noi. Eravamo noi, molti dei quali potevano vantare di essere cresciuti a merendine confezionate, ma anche di aver assaggiato il pane e olio dai nonni, che iniziavamo a riscoprire come alimentarsi con una cucina “povera” ma sana, col desidero di aiutare il produttore locale a riemergere dalle ceneri. Mi sembra che uno degli slogan fosse qualcosa tipo “pensa globale, mangia locale”. Ovvero tutti interconnessi.
Il tempo iniziava ad essere la grande ricchezza, avere tempo per poter stare con le persone care, per stare a contatto con la natura, per sentirsi liberi. Molti dei miei amici si sono inventati lavori che permettessero questo livello di benessere, che non aveva a che fare solo col benessere economico.
Abbiamo compreso che le norme internazionali, quelle di confezionare tutto con la plastica, anche un rametto di salvia, di togliere i fontanelli pubblici, di aprire sempre più centri commerciali, stavano non solo distruggendo l’economia reale e della piccola imprenditoria, ma avrebbero distrutto il pianeta, avrebbero compromesso la sopravvivenza delle api e la biodiversità, sarebbe stato un pericolo grave per tutto il pianeta. Alcuni desideravano un ritorno alla semplice vanga, altri invece pensavano all’aiuto della ricerca e della tecnologia ma sempre con l’intento di generare una economia a dimensione umana. Genova era questo, un monito verso una situazione pericolosa di non ritorno, chi manifestava a Genova voleva parlare di questo, far sentire questa voce con proposte reali e pacifiche. Poi certo ci furono anche i Black Block che distrussero parte della città. La violenza è sempre pronta a inserirsi ovunque, soprattutto nei momenti di crisi. Morì Carlo Giuliani un ragazzo di appena 23 anni, non riesco a dire dopo anni se fosse un violento, ma sta di fatto che è un fallimento delle forze dell’ordine se muore un giovane. Ma ci fu anche la violenza delle forze dell’ordine che irruppero nella scuola Diaz. E nell’insieme una valanga di violenza e paura riversate sulla televisione nazionale e internazionale. Non voglio soffermarmi su questo, ci vorrebbe un intero articolo che affronti questi passaggi, e non è il mio intento, ricordo solo che il 7 Aprile del 2015 la Corte Europea dei Diritti dell’uomo ha dichiarato all’unanimità che è stato violato l’articolo 3 sul “Divieto di tortura e trattamenti inumani o degradanti” durante l’irruzione alla Diaz. Dovremmo porci delle domande sulla responsabilità di chi era la governo in quel momento…
Quello però su cui vorrei porre l’attenzione sono le conseguenze che “il fallimento” di quella manifestazione ha prodotto. Lo shock improvviso riversato sui media non solo di un giovane morto, di una città distrutta ma di giovani e giovani pestati a sangue, il caos impetuoso di informazioni non chiare ma sicuramente angoscianti, hanno reso sfuocato qualsiasi intenzione e messaggio da trasmettere. Ai molti poteva apparire la solita ribellione scalmanata dei giovani, che a seconda del momento storico, di qualcosa devono pur lamentarsi, e lo fanno male, perché lo fanno creando confusione sociale.
Meno di due mesi dopo cadevano le Torri Gemelli, avveniva il più grande attacco terroristico al mondo occidentale di tutti i tempi e ancora una volta veniva sbattuto così sul grande schermo, in diretta, senza lasciare la possibilità di pensare, di elaborare. Portiamo sul corpo e nella mente le tracce indelebili di questi eventi. Dobbiamo comprendere che i traumi anche quelli sociali richiedono consapevolezza ed elaborazione, accoglimento emotivo.
Non credo fosse solo la mia giovane età, io credo che veramente ci fosse un fermento inarrestabile, internazionale, un movimento mondiale assai cosciente in quel periodo che chiedeva attenzione ai temi della salute e della convivenza dell’uomo col pianeta terra. Certo non possiamo dire che i temi dell’ecologia, di un’agricoltura sostenibile, non siano maturati in questi anni. L’agricoltura integrata, quella biologica e quella biodinamica sono cresciute esponenzialmente sul territorio nazionale, ma è come se si fosse creato un binario parallelo, distaccato dal complesso sistema del dibattito politico e sociale. Grani antichi e protezione dei semi sono diventati oggetto di gourmet e intenditori da mercatini di lusso. Ai poveri e ai meno facoltosi restano i discount. Non è così una cultura del benessere e della giustizia sociale.
Comprendere che tutta la politica e l’economia dovevano essere riviste in un’ottica diversa dal “non fermarti mai, sennò non produci abbastanza” e che l’ambiente e la biodiversità fossero qualcosa che serviva a organizzare la quotidianità di bambini e famiglie e non il mercatino della domenica, beh io credo che questo si sia letteralmente perso di vista. Credo che chi ha portato avanti un modo di vivere e pensare diversi, fatto di consapevolezza a partire da ciò che mangi, da come vivi, fino al lavoro che fai, lo abbia fatto un po’ in disparte, quasi silenzioso, facendosi carico di oneri e onori, ma senza un reale riconoscimento sociale. In questo senso si è creato un binario parallelo, un qualcosa dove lo fai, lo puoi fare, ma non ti senti accolto anzi rischi di essere il “solito” diverso, un pò fissato con argomenti alternativi.
Cadere in questo giochino del “naturale di elitè” è stato il modo di rendere nulla la possibilità di cambiamento reale e consapevole.
Certo so bene che ad esempio il passaggio dall’agricoltura intensiva a una agricoltura rispettosa è difficile e non realizzabile dall’oggi al domani, ma noi vent’anni fa abbiamo perso di vista che se non ci fossimo occupati strutturalmente di queste tematiche sarebbe venuta meno la salute dell’uomo. La salute globale!
Ed ecco che abbastanza semplicemente possiamo arrivare ad oggi, alla Pandemia, perché molto di ciò che stiamo vivendo oggi dipende dalle scelte non fatte ieri. Da ciò che non è stato visto, o non si è voluto vedere.
Senza dover scadere in nessuna ipotesi complottista connessa al 5G o a sperimenti da laboratorio, sappiamo bene dai più alti vertici della ricerca scientifica internazionale che una Pandemia era ipotizzata, tanto che l’OMS aveva già stilato un protocollo da attuare in caso di Pandemia, ipotesi connessa proprio con le condizioni di vita della comunità globale. Durante il lockdown ho partecipato a una formazione sul Covid, con tanto di ECM, fatta dall’Istituto Superiore di Sanità per gli operatori del sistema sanitario, che devo dire offre delle ottime formazioni anche gratuite. Una delle formazioni che ho trovato in evidenza sul sito, pre pandemia, era quella relativa al problema dell’antibiotico resistenza e in particolare alla convivenza coi microorganismi. Questo ci offre la misura del problema emergente rispetto alla convivenza coi microorganismi in un ambiente che con scarsa ecologia, inquinamento e uso massiccio di farmaci.
Le connessioni tra la vita della comunità globale e la diffusione di una Pandemia sono a sommi capi queste:
- Inquinamento, scarsa ecologia, impoverimento della biodiversità hanno generato condizioni meno salutari per le piante, per le specie animali, per l’aria e le acque, consentendo lo sviluppo di microorganismi (batteri e virus) dannosi e sempre più aggressivi.
- Condizioni di vita del genere umano di scarsa salute: sistemi immunitari sempre più deficitari perché l’eccessiva pulizia e l’uso di farmaci non permette al sistema immunitario di formarsi lottando contro agenti patogeni esterni, anzi non avendo obiettivi ne trova di interni (vedi le malattie autoimmuni che da anni sono oggetto di discussione della ricerca scientifica come dovute a condizioni di vita generali). Tra le condizioni di vita si aggiunge la condizione di assembramento in luoghi chiusi che necessita l’uso di condizionatori d’aria (sappiamo quanto siano pericolosi per la diffusione), e la promiscuità con persone di cui non conosciamo niente rispetto allo stato di salute ma con le quali magari condividiamo le ciotoline di patatine sul bancone degli aperitivi.
- Il terzo punto lo potremmo considerare collaterale, è quello che riguarda l’economia e l’impossibilità di fermarsi o rallentare. Non è anomalo di per sé che vi siano dei momenti di diffusione di una certa malattia in una certa popolazione, questo è sempre accaduto, anche se in corrispondenza sempre di situazioni sociali difficili come guerre, carestie, carenze di acqua potabile ecc.., ma l’impossibilità di proteggere e proteggersi fermandosi, questo sì che è anomalo. Questo ha fatto sì che ciò che poteva essere una epidemia diventasse una pandemia. Una società che non può rallentare neanche per motivi di salute è una società già di per sé malata. Non mi riferisco qui al lockdown che è già una condizione di emergenza estrema, ma alla possibilità di proteggersi rallentando un po’, diminuendo certi flussi nei momenti sensibili di una comunità sociale. Si è tirato a livello globale la corda senza responsabilità e comprensione profonda di ciò a cui andavamo incontro.
Ecco allora che il filo sottile che unisce certe tematiche scottanti alla situazione attuale, tematiche che emergevano con forza e chiarezza ai tempi del G8 di Genova e che non sono entrate a pieno titolo nella programmazione politica e sociale mondiale, deve essere rivisto, accolto e usato a pieno per pensare un futuro che sia diverso.
Penso che la Pandemia sia una fenomeno che può essere messo in relazione alla mancanza di un pensare globale, reale e funzionale rispetto proprio alle tematiche emergenti nei movimenti di protesta e nel Social Forum.
Se può essere necessario in un periodo transitorio di emergenza lavarsi le mani e igienizzare gli ambienti, dobbiamo avere uno sguardo di lunga gettata e riprendere a pensare che la situazione più salutare per l’uomo non è assolutamente l’ambiente sterile ma la valorizzazione di pratiche di salute. In primis vorrei citare quelle che riguardano i primi anni di vita in cui il sistema immunitario si forma, come la tutela della relazione con le figure di accudimento e l’allattamento al seno, che garantisce il miglior assetto immunitario possibile. Il microbioma che al momento della nascita subisce un’ impronta decisiva. Questo però deve essere accompagnato da politiche sociali specifiche che non possono essere solo quelle di creare servizi rivolti alla prima infanzia dove portare i figli perché i genitori devono lavorare (che abbiamo visto chiaramente essere un punto critico della Pandemia, dove le esigenze di tutela della popolazione di stare a casa, si scontravano con le necessità di lavorare e di non saper dove mettere i figli), ma che siano la creazione di un giusto equilibrio tra lavoro e famiglia, di un benessere che non è solo produttività economica, ma tempo per stare bene, per riposarsi. Altrimenti anche una pratica così preziosa come l’allattamento al seno diventa l’ennesima richiesta di prestazione eccezionale a carico delle donne! E lo stesso vale per le famiglie rispetto all’accudimento dei figli.
La scuola deve essere il grande laboratorio esperenziale dell’esistenza comunitaria. Allora va bene se ripensiamo gli spazi per evitare troppi alunni chiusi in un’aula (che è di per sé non salutare ben aldilà della pandemia), ma poi la scuola deve essere contaminazione di idee e attività, deve essere una scuola aperta anche nel pomeriggio per accogliere le esigenze di luoghi protetti dove apprendere come stare insieme. Deve essere una scuola diffusa che porta nel centro città i ragazzi non che li allontana dal fuori. La scuola dovrebbe farsi carico di uno spazio di elaborazione psichica di ciò che è accaduto, non si può pensare di ripartire così come se niente fosse accaduto, ma solo con la voglia di riprendere tutto come prima.
Lo stress è tra i principali nemici del sistema immunitario.
Significa pensare che dobbiamo creare un equilibrio e habitat favorevoli alla buona convivenza tra microorganismi e uomo, che siano in continua interazione e non l’uno che si difende dall’altro.
Educazione alimentare e relazione consapevole con la terra come discipline fondamentali nell’educazione dei giovani e delle famiglie e non solo nei mercatini delle città. Valorizzare il territorio e le attività all’aperto, non per paura del virus, ma come fattori reali di maggiore salute fisica e psichica.
Una cultura della salute reale, dove la prevenzione sia realmente prevenzione primaria, ovvero pratiche e non solo diagnosi precoci.
L’economia è in ritirata perché i grandi investitori, guidati per decenni solo dal consumo massimo e dalla massima produttività, hanno visto che improvvisamente tutto può fermarsi per un microorganismo, e non vogliono più rischiare così tanto come è avvenuto ora.
Veramente possiamo cogliere l’occasione per invertire la rotta, perché davvero quello che è accaduto ha coinvolto tutto, ha messo in crisi il sistema e quindi il sistema va cambiato. Anche se questo sicuramente porterà gravi perdite e disagi mai visti.
Credo però che non abbiamo altra strada.
L’impatto di eventi altamente significativi per una società, soprattutto se portano con sè la paura e un senso di pericolo, come quelli di Genova, ma anche quelli dell’attentato terroristico del 2001 si propaga con tempi lunghi e spesso nascosti, come spesso avviene con le paure non riconosciute e non elaborate, esse agiscono in sordina, nei bassi fondi, chiudendoci gli occhi, non permettendoci di vedere per anni quello a cui si va incontro. Siamo passati da un senso di sicurezza precario dovuto a cause esterne come il terrorismo, l’altro, lo straniero, nelle più svariate e irrazionali delle forme per poi trovarsi improvvisamente con un senso di sicurezza precario dovuto a qualcosa che ti coglie dall’interno come un virus.
Molte cose non abbiamo visto fino a che la Pandemia non ce le ha messe di fronte in maniera estrema e senza possibilità di rimandare. Quanti hanno vissuto il contrasto tra il pericolo economico dovuto al lockdown e la sensazione di benessere di riavere indietro il proprio tempo libero, il relax, il tempo coi propri cari. Raccolgo tutti i giorni come terapeuta molte di queste emozioni e di questi pensieri confusi.
Ecco che ora come società dobbiamo sentirci impegnati non solo nella ripartenza, nel porre rimedio, ma nel pensare a lungo termine e nell’avere una visione. In questa fase accanto ai politici che nei fatti pianificano il domani più prossimo con la riapertura dei servizi e la riorganizzazione (perché sicuro una certa rapidità è necessaria in questo momento) con tempi frenetici e agende serrate, dovremmo far spazio però anche a un tempo più disteso fatto di pensiero, raccoglimento, un tempo oserei dire anche più intellettuale, filosofico, psicoanalitico che ci consenta di capire l’impatto psichico ed emotivo profondo che ciò che è accaduto ha avuto su tutti, indistintamente, cittadini comuni e politici.
I traumi sociali richiedono cura al pari di quelli individuali e capacità di riconoscerli e trasformarli.
Possiamo provare almeno una volta a comprendere che i processi psichici influenzano le capacità decisionali molto più delle reali competenze che si possono avere. Possiamo provare per una volta a prenderci cura delle ferite non solo fisiche ma psichiche che tutti ma proprio tutti subiamo?